Esiste una vasta letteratura sull’ADHD, ma alcuni contributi si distinguono per chiarezza e rigore scientifico. Uno di questi è un intervento del Prof. Samuele Cortese, Professore di Psichiatria Infantile e Adolescenziale presso l’University of Southampton. (Link in fonte)
L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo con basi biologiche ben documentate e non è caratterizzato da un deficit assoluto di attenzione, ma da una difficoltà nella modulazione dell’attenzione secondo il contesto. Questo spiega perché bambini e ragazzi possano mostrare una grande capacità di concentrarsi su attività molto stimolanti, mentre faticano enormemente su compiti ripetitivi o poco gratificanti. Possono prestare attenzione quando il livello di ricompensa è alto, mentre faticano nelle attività quotidiane noiose. Si tratta di un fenomeno che trova spiegazione nel funzionamento di specifiche reti neurali, in cui la corteccia prefrontale dorsolaterale e le connessioni con il nucleo striato giocano un ruolo centrale nella regolazione della motivazione e dell’attenzione. Non è incoerenza: è il riflesso di un cervello che elabora in modo diverso la motivazione e l’attenzione.
Gli studi epidemiologici indicano una prevalenza stabile intorno al 5% della popolazione infantile quando vengono utilizzati strumenti diagnostici standardizzati. La percezione di un aumento dei casi è piuttosto il risultato di una maggiore consapevolezza diagnostica e di una sensibilità crescente da parte di famiglie, scuole e servizi sanitari. L’idea che il disturbo “passi” con la crescita è fuorviante: solo circa il 15% perde completamente i criteri diagnostici in età adulta, mentre oltre il 70% continua a presentare sintomi clinicamente rilevanti, spesso con manifestazioni diverse rispetto all’infanzia.
L’ADHD raramente si presenta da solo. È frequente la presenza di disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, disturbo oppositivo-provocatorio e disturbi dello spettro autistico. Negli ultimi anni sono emerse correlazioni anche con alcune condizioni mediche, come obesità e asma. Come viene ricordato nella lezione, non si tratta di “bambini cattivi”, ma di una condizione neurobiologica complessa con ripercussioni che possono coinvolgere diversi aspetti della salute fisica e mentale.
Le origini del disturbo sono multifattoriali. La genetica molecolare ha individuato almeno ventisette varianti geniche associate all’ADHD, ognuna con un effetto minimo ma cumulativo. A questi fattori si aggiungono elementi ambientali precoci, come l’esposizione prenatale al fumo o alcune complicanze neonatali. Nessuno di questi fattori, da solo, è sufficiente a determinare il disturbo; è l’interazione tra componenti genetiche, ambientali e di sviluppo a dare forma alle reti neurali coinvolte nell’attenzione, nella regolazione emotiva e nell’autocontrollo.
La diagnosi resta un atto clinico complesso. La diagnosi è clinica: non c’è un test genetico o biologico per l’ADHD. Si basa su un’anamnesi approfondita, sull’osservazione diretta del comportamento e sull’utilizzo di scale standardizzate per quantificare la gravità dei sintomi. I test neuropsicologici non sono diagnostici in senso stretto, ma possono aiutare a delineare i profili di funzionamento cognitivi ed esecutivi.
Il trattamento richiede un approccio integrato. I farmaci, sia stimolanti che non stimolanti, hanno dimostrato efficacia nella riduzione dei sintomi principali, ma non rappresentano una soluzione autonoma. È necessario affiancarli a interventi psicoeducativi, parent training, strategie comportamentali e un’adeguata collaborazione con la scuola. Parliamo di un lavoro di rete che coinvolge famiglia, scuola e servizi sanitari. Nessuna componente, da sola, è sufficiente. L’obiettivo centrale non è “normalizzare” il comportamento, ma ridurre gli ostacoli che impediscono ai bambini e ai ragazzi di sviluppare le proprie risorse. Il nostro obiettivo non è normalizzare il comportamento, ma permettere ai bambini di sviluppare il loro potenziale riducendo gli ostacoli.
